di Maurizio Liverani
Aveva ragione il cardinale Rezzonico il quale a Giacomo Casanova, giunto per la prima volta nella Città Eterna, disse: “Roma è una città di infarinati, di presuntuosi che passano il loro tempo a smascherare i rivali”. Questo “tran tran” vale, oggi, per tutto il Paese. Lo snob si riconosce dalla inclinazione a proporsi, dopo essere stato per anni proto-rivoluzionario per ragioni di superiore estetismo, anticipatore dei “tempi nuovi” avendo come obiettivo una “union-sacrée”. E’ un’impresa trasformistica così scoperta da apparire insipida e noiosa. La politica tradizionale, fatta di scontri tra destra e sinistra, è andata a male dopo essere stata scambiata per l’epifania di un nuovo corso. Nell’assordante chiacchiericcio di seggiole si sono coniugati i due tronconi della sinistra. Installato in vetta, come un misirizzi appollaiato in cima a una molla, si illudeva di essersi posto Massimo D’Alema. Sembrava esserci riuscito, invasato della propria vocazione di grande statista. Oggi, da pretendente di un carisma ingiustificato, viene invitato da Giuliano Pisapia a “mettersi di lato”; espressione surrogata da quella di fare “un passo indietro”. E’ una forma di riguardo usata dall’ex sindaco di Milano verso un leader, ora viticoltore di grido, divenuto intollerante, secondo irrispettose mormorazioni, perché affetto dalla sindrome del “colon irritabile”. E’ una irritazione che influisce sulle nostre decisioni, sulle rabbiette politiche, sulle indignazioni di comodo. Oggi non solidarizza con D’Alema nemmeno Pier Luigi Bersani, il quale si rimprovera di non saper venire a capo del problema della disgregazione della sinistra, nonostante numerosi saggi spieghino essere la suddivisione destra – sinistra un’invenzione politica nata per soddisfare tornaconti personali. Per un uomo come D’Alema, che considera se stesso essenziale per l’attuale momento, questo improvviso rifiuto di stima da parte di Pisapia e da tutto l’elettorato, sopravvissuto alla fine del comunismo, è un’enorme ferita all’orgoglio. Più offensiva la reazione dei “bacilli virgola”, i diccì di sempre come Bruno Tabacci il quale, all’insaputa della stampa e del video, ha tramato perché la mentalità egemonica del Pd di Matteo Renzi fosse la soluzione valida per il Paese servendosi di un “surrogato” rivelatosi astuto e intelligente come Paolo Gentiloni. Bisogna, secondo i renziani, arrivare al capitolo riforme per realizzare, nell’utero della politica, l’inciucio, giudicato “terapeutico” sin dai tempi di Giorgio Amendola. D’Alema, pur di durare, aveva tentato, con il tacito assenso di Silvio Berlusconi, di tradurre le famose “convergenze parallele” in un governo di larghe intese. Una magia celeste, e non altro, può aver indotto il presidente di FI a ricredersi. Non c’è altra spiegazione perché quella vagheggiata soluzione viene riproposta con Matteo Renzi. Con disincanto paternalistico Berlusconi aveva commentato: “Mi ricorda me stesso quando ero giovane”. Come dire: “Mi posso fidare, è uno dei nostri”. Non trovava altrettanto delizioso il sentimento di uguaglianza con Massimo D’Alema che voleva artigliare i partiti cooptabili con il proposito di renderli inservibili. In Italia la politica è decisa dai vertici che confidano nell’apatia dell’elettorato. Che fare? Mettere in campo Giuliano Pisapia e far intendere a D’Alema: scansati, lasciami lavorare.
Maurizio Liverani