di MAURIZIO LIVERANI
Il film più singolare della stagione neorealista è il poetico e fantasioso “Miracolo a Milano” di Vittorio De Sica (1951), tratto dal romanzo di Cesare Zavattini “Totò il buono”, ripresentato, dopo il restaurato, al Festival di Cannes. Il film ha vissuto una travagliata esistenza perché i poveri “disturbano”. Quando uscì, la stampa lo trattò con distacco. La sinistra valorizzava, in quegli anni, registi e film pregni di “messaggi” come le api di miele, ma che spesso il pubblico restituiva al mittente. Vittorio De Sica era, però, un regista “rassegnato” al successo e non aveva alcun complesso di inferiorità nei confronti dei colleghi con tessera, autori di pellicole che hanno fatto sovente piangere il botteghino. Che cosa non piaceva ai sostenitori dei film impegnati? Che Totò, il protagonista principale, decida di far volare in cielo, a cavallo delle scope, verso un mondo migliore un drappello di diseredati, testimoni che l’Italia era afflitta da una vasta povertà. De Sica fu colpito da un’altra folgore: Giulio Andreotti, con la frase “i panni sporchi si lavano in casa”, indusse la Cineriz a ritirare dagli schermi, con l’assoluto disinteresse dei sindacati, l’altro capolavoro del regista “Umberto D” del 1952, sfuggito alla censura preventiva promossa dallo stesso “Divo” nel 1949 quando era sottosegretario allo spettacolo. L’onorevole mi disse: “Non è stata una censura, è stato un semplice consiglio”, che, purtroppo, divenne regola per il cinema italiano sempre “rispettoso”. Mi spiegò di non aver mai avuto l’anima del censore; ritorse l’accusa al pci che con il suo Minculpop aveva un inesorabile controllo, chiamato da Jean-François Revel “la nuova censura”. “Umberto D” è la storia di un vecchio professore ridotto a chiedere l’elemosina allungando, con contenuta vergogna, la mano ai passanti; rivelazione del fallimento dei proclami sindacali. In un’altra occasione il “Divo Giulio, dimostrandomi una inaspettata simpatia, disse che Mario Melloni, direttore dell’”Unità”, con la sua fretta di arrivare al “compromesso storico” senza attendere il benestare dei grandi potenti, si comportava da “gran rompiscatole”. L’ambizione di Melloni era quella di essere un anticipatore dell’”inciucio terapeutico”, sempre in vigore sottotraccia, sfavillante ai giorni nostri. Con “Ladri di biciclette”, con “Umberto D” e con “Miracolo a Milano”, Vittorio De Sica era riuscito, con il suo talento e la sua autorevolezza, a non confondersi con i registi del regime di allora. La proiezione a Cannes di “Miracolo a Milano” è un buon segno; l’invadenza della politica che ha privilegiato per anni i lottizzati non è più vitale per il libero mercato cinematografico. E’ forse finita un’epoca? Dietro il paravento della denuncia, dell’impegno sono evaporate somme enormi. Nel cinema, nel teatro, nella televisione di Stato si è trovata incarnata la più alta concentrazione di spirito di cricca che domina l’Italia fin dal dopoguerra.
MAURIZIO LIVERANI