FATEMELO DIRE
di MAURIZIO LIVERANI
NEMICI PER LA PELLE
Federico Fellini fece arrabbiare furiosamente Jacques Tati; il regista francese, e interprete delle sue opere, era determinato a battezzare il suo quarto film “Tati quatre et demi”. Incautamente, chiese consiglio a Fellini che ne fu a tal punto entusiasta da intitolare il suo “Fellini otto e mezzo”. Questa scorrettezza convinse Tati a rinunciare al suo progetto. Parlando di Federico, dava sempre in scalmane: “Menteuer, trompeur” accompagnavano insulti irripetibili. Prima di diventare nemici, Fellini aveva per Tati una predilezione speciale; gli riconosceva di aver satireggiato il mondo moderno con una ferocia particolare trasferita in un contesto da sberleffo. Sorprende, nel cinema italiano, che anche gli autori dotati di un autentico talento, mai sazi delle loro qualità, cerchino di trasmettere nelle loro opere suggestioni provenienti da grandi autori stranieri. Sergio Leone, elogiato in tutto il mondo per le sue qualità, per il primo film sposò il linguaggio cinematografico di Kurosawa. Fu costretto a riconoscerlo e fu querelato; il suo produttore dovette pagare una ingente somma al collega giapponese. Fellini amava giocare anche con l’abbigliamento di Tatischeff (era di origine russa) che indossava lunghi trench e lunghe sciarpe. Nei film di Tati c’è un unico tema: l’annullamento della personalità in un mondo in cui si affievolisce sempre più la personalità. E’ il regista che più si ispira a Chaplin ma con uno stile in cui i suoni sono materiali espressivi. L’ho intervistato diverse volte; mi chiamava a casa da Parigi perché aveva importanti cose da dirmi e di raggiungerlo al più presto. Queste cose si riassumevano in una requisitoria violenta e amara contro il regista della “Dolce vita”. I rapporti tra i due da ottimi divennero conflittuali. Fellini arrivò al punto di smettere di girare se qualche giornalista sul set gli chiedeva le ragioni dell’ostilità che Tati gli dimostrava. Chiesi a Tati, sul set di “Playtime” (1967), perché aveva esteso il suo rancore a tutto il cinema italiano. Invece di rispondere alla mia domanda replicava la solita requisitoria contro tutti; sembrava un sobillatore da stadio. Nella concezione del regista, il cinema italiano doveva dire grazie ogni giorno al cinema francese. I nemici di Tati, in Italia, divennero legioni; peccato, perché il regista francese era molto simpatico e molto bravo. Questo scontro tra due personalità dotatissime si era trasformato in una sorta di incomunicabilità tra due cinematografie. E’ dimostrabile che da questo conflitto non ne hanno tratto vantaggio nessuno dei due registi che assorbivano ironicamente gli anatemi che l’uno rivolgeva all’altro. Il cinema francese, sempre avverso a quello italiano, si è ricreduto grazie alla “nouvelle vague” con registi come Louis Malle e François Truffaut che non esitò a definire “Otto e mezzo” un film “charmant, merveilleux, adorable”. A Truffaut chiesi una volta: “Perché non vieni a fare un film in Italia?”. “Ma lei è matto. In Italia, prima o poi, si diventa macchiette. In Francia ci si prende sul serio. Est la régle du jeux!…”, concluse ridendo.
MAURIZIO LIVERANI