di Maurizio Liverani
Le vicende personali di uomini divenuti illustri, con il tempo e grazie ai loro scritti e ai loro pensieri, obbediscono, in Italia, ai soliti canoni politici. Il simpatico Dario Fo è stato ufficiale della Decima Mas, Roberto Rossellini, Alessandro Blasetti sono diventati famosi per lo stretto legame che avevano con Vittorio Mussolini il quale non chiedeva alcuna tessera di partito, ma intendeva valorizzare soltanto talenti che si sono trovati sin da giovani sul gobbo il Fascio. A questo regime, che non chiedeva alcuna aperta adesione, nessuna particolare devozione e si accontentava di qualche esterioritĂ , ad esempio, il saluto romano, il “voi”, qualche “vinceremo” di troppo piĂą un fanfaronesco “tireremo diritto”, tipi come Michelangelo Antonioni dettero la loro adesione giovanile. Il regista non agì in base a criteri di opportunitĂ alla maniera di Norberto Bobbio, di Luigi Einaudi, di Amintore Fanfani, di Giovanni Spadolini, di Sandro De Feo (esilarante la definizione dello squadrismo esaltato come “immortale”). Se non si fosse intrugliato nel Guf, Antonioni sarebbe stato un indocile perdigiorno, concorrente a qualche “littoriale della cultura”. Introiettò il gamete fascista come Antonello Trombadori, Mario Alicata, Giuseppe De Santis, autore di “Riso amaro” dopo essere stato critico cinematografico della rivista “Cinema” diretta da Vittorio Mussolini. Per tutti questi, Aldo Moro compreso, il “ventennio nero” non è stato un calvario. In un Paese dove tutti siamo ex di qualche cosa, soltanto ad Antonello Trombadori è stato preparato un tribunale. Ci si guarda bene dal ricordare come un presidente della Repubblica approvò, nel ’56, l’invasione sovietica dell’Ungheria e, nel ’69, i cingolati di Krusciov a Praga. Pare singolare che Antonio Giolitti, morto all’etĂ di novantacinque anni, sia stato coperto di insulti da Giorgio Napolitano che, per fortuna, alla morte dell’antico compagno ha chiesto perdono. Contrariamente ad altri Antonioni non si convertì al comunismo. La smania di restare a galla ad ogni costo non era la bussola di tipi come lui; preferiva restare fuori della storia piuttosto che sottomettersi a un nuovo regime. Si fa fatica immaginare l’interprete di dolorose sofferenze dell’anima impigliato nella polemica politica; non ha mai avuto difficoltĂ a confermare il suo coinvolgimento nella temperie littoria. Dalla sua vicenda politica discende la scoperta della alienazione, figlia di errori e di delusioni personali. Preferiva Pavese a Pratolini, la situazione statica al conflitto, le storie inconcluse a quelle con inizio, svolgimento e finale. Era il regista del distacco e di chi non crede a nulla. Aveva in testa una frase di Cechov: “Chi troverĂ altri finali alle nostre storie avrĂ aperto una nuova epoca”. Non si atteggiò mai a beghina della sinistra. PerchĂ© tanto disinteresse verso di lui? Il suo torto era di avere una intelligenza inquieta e un pensiero libero.
Maurizio Liverani