di Maurizio Liverani
Alla sinistra hanno voltato le spalle anche gli intellettuali e questo è il segno che il servilismo degli autori cosiddetti organici è approdato alla convinzione riassunta così da Ennio Flaiano nel “Diario notturno”: “L’età mi ha portato la certezza che niente si può chiarire; in questo Paese che amo non esiste semplicemente la verità. Paesi molto più piccoli e importanti del nostro hanno una loro unica verità, noi ne abbiamo infinite versioni”. L’astiosa avversione dell’intellettualità (“organica” alla politica) la esprime in questa frase: “L’arco costituzionale non ci ama”. Mino Maccari rincara: “Lo Stato ci è ostile, dobbiamo difenderci e l’italiano che può si difende con la legittima difesa: evade il fisco”. Quando Luchino Visconti denunciò il critico teatrale Raul Radice di “scarsa lealtà” per essersi fatto assorbire dal sonno durante la rappresentazione di “Uno sguardo dal ponte”, Flaiano scrisse di essere stato talmente scosso dall’accusa al punto di non aver chiuso occhio durante tutta la “Monaca di Monza”, film di Eriprando Visconti. Il sonno, per il regista della “Terra trema”, era una “deriva di destra”, una forma di fascismo. E’ inutile ricordare come reagì Flaiano: “Vorrà dire che mi appenderanno come un bue a piazzale Loreto”. Per confortare Visconti, proprietario dell’allora Giviemme (famoso dentifricio), che si lamentava di questa tendenza al “pisolo” degli utenti – soprattutto ai suoi spettacoli – Flaiano spiegò: “In questi istanti (di sonno, ndr) abbiamo lo spettatore perfetto, unico, ideale”. A indebolire la sua fiducia nella vita provvide la convinzione che tra gli intellettuali, come scrive Pier Paolo Pasolini in “Petrolio”, il “rischio dell’impopolarità fa più paura del vecchio rischio della verità”. La malafede è ideologizzata come il solo modo di essere colti e addirittura poeti. Quando uscì “I sotterranei del Vaticano” di André Gide, che per anni era stato iscritto al partito comunista francese, gli elogi caddero a pioggia. Quando uscì “Ritorno dall’Urss” sulle condizioni di vita e morali nell’Unione Sovietica che illustra il degrado del regime stalinista, gli insulti contro lo scrittore francese trabordarono. Al regista Elio Petri, Flaiano rimproverò di aver dato, nell’”Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, a una guardia il nome di Mario Pannunzio (direttore de “Il Mondo”): “Pensando a Pannunzio avevi voluto sbeffeggiare tutta una classe di persone colpevoli di non credere nella repubblica conciliare, la repubblica del doppio dogma, quello comunista e quello cattolico”. Il necrologio dell’”Unità” alla morte di Flaiano grondò ignominia. L’articolista, intingendo la penna nella pece, non poté dire “servo dei padroni” soltanto perché Flaiano, in una fulminante replica a chi gli chiedeva: “Perché non sei comunista?”, rispose spazientito: “Non ho mezzi…”. Aveva il terrore di confondersi con la politica; non si lasciò immatricolare “come tanti”, scriveva, “disperati intellettuali ansiosi di essere scambiati per quello che non si è: per rivoluzionari”. Quando gli presentai Matteo Matteotti, persona squisita, appassionato violinista, Flaiano simpatizzò con il ministro dello Spettacolo il quale, convinto di dargli una buona notizia, gli disse: “Renderemo nuovamente funzionale il Colosseo”. Quando restammo soli, ebbe uno scatto di ira degno di un grande attore: “Ma come fa a essere un politico un così grande violinista…?”. Riecheggiava un’ironia di Maccari: “La politica sottrae alle arti i migliori ingegni nazionali. I peggiori continuano a occuparsi di politica”.
Maurizio Liverani