Quarant’anni fa moriva, a Beverly Hills, Jean Renoir. “Renoir è il miglior regista visto alla Mostra. Quando c’era un suo film, la sala era sempre piena. Il suo modo di parlare è così moderno, sempre nuovo…”, così mi disse il regista Alexander Kluge a Venezia nel 1968. Il dovere di ricordarlo è una iniezione di ottimismo contro chi ogni giorno si inabissa sempre più nell’odio. “La grande illusione”, 1939, a tanti anni di distanza è vista come una singolare opera d’arte. Oltre al linguaggio di classe sopraffina che raggiunge l’eccellenza, va riconosciuto al film un pregio assai più importante: è la più grande condanna che in quel tempo, 1937, si fece della prima guerra mondiale. L’opera di Renoir è compendio doloroso della condizione dell’umanità; un sussulto di sdegno isolato e orgoglioso. E’ una violenta requisitoria contro la disumanità. L’autore è spinto più dal desiderio di condannare che dal bisogno di esprimere se stesso. E’ un’invocazione lirica alla pace.