PABST SPIA HITLER NEL BUNKER DELLA MORTE


FATEMELO DIRE
di MAURIZIO LIVERANI

PABST SPIA HITLER NEL BUNKER DELLA MORTE
Il nazismo con la sua sconfitta ha sviluppato, nel cinema tedesco, un’attività critica verso la grande industria e verso i molti aspetti del militarismo teutonico, che può meravigliare ma non dispiacere. La Germania d’oggi mostra di aver trovato un suo spirito democratico; i tedeschi sembra vogliano ammettere i mitologici tabù creati dalla tradizione autocratica europea. Ciò spiega il fiorire di opere, anche cinematografiche, che affrontano con spavalderia il tema della troppo rigida disciplina militare; che denunciano senza coprirli i misfatti e gli orrori del regime hitleriano. Tanto per tenersi allenati con lo scetticismo potremmo osservare che quest’altro volto – che ebbe modo di mostrarsi quando le sorti della guerra erano decise – sembra fosse rappresentato quasi esclusivamente dagli ufficiali della Wehrmacht. Il punto più alto di questa dolorosa autocritica, anche se addolcita da qualche compromesso comodo, è offerto da film come “L’ultimo atto” che porta la firma di George Wilhelm Pabst, del 1956. E’ un capolavoro per anni tenuto nel silenziatoio e che, riproposto oggi, attesta un’impronta vigorosa come se mettesse solo ora a fuoco una delle più sconcertanti figure della storia. Chi era Hitler? A questa domanda sono state date risposte spesso arbitrarie, per lo più affette di passionalità, di esagerazioni, di errori. Il capo del Terzo Reich non era né un mostro né un superuomo, ma un uomo. E di questo uomo il film di Pabst narra, sulla falsa riga di un soggetto di Erich Maria Remarque, la lenta morte nel bunker della Cancelleria di Berlino. Non che avesse paura, ma soltanto là si sentiva capace di lavorare e di riflettere. Pabst, come tutti gli artisti dediti allo studio delle psicologie, prende a tradimento i suoi personaggi, li coglie alle svolte. “L’ultimo atto” è, infatti, un assiduo, tortuoso spionaggio del Führer nella sua situazione più disperata; quella che precede la fine. Nel bunker, divenuto il sepolcro del nazionalsocialismo, lo spettatore ha la vivida sensazione che Hitler sia sepolto. Una inquietante sepoltura, mentre la televisione e il telefono scandiscono gli ultimi istanti del Terzo Reich. I generali sono ormai rassegnati alla sconfitta; solo Hitler, precocemente invecchiato, quasi logoro, esausto, ridotto a essere debitore degli eccitanti della sua permanente euforia ma anche dei suoi scatti irrazionali, crede nella ripresa. Il film sottolinea uno degli aspetti più sconcertanti della natura del Führer, vale a dire la connivenza in lui di realismo e di stranezza chimerica. Capace di discernere con chiarezza l’essenziale, confida nel contrasto tra Occidente e Oriente – che già da allora si andava delineando – per mercanteggiare il suo appoggio, ma in pari tempo si foggia un quadro fittizio della situazione sui vari fronti, in tutto conforme alle sue speranze, ai suoi desideri, ai suoi propositi. Così, a guerra ormai perduta, fa avidamente propri tutti gli argomenti che sembrano confermare i suoi sogni di vittoria, e respinge, invece, come privi di qualsiasi importanza quelli contrari, anche i più seri, molesti alla sua mente. Solo quando apprende che le truppe sovietiche sono nei pressi del sotterraneo, riacquista il senso della realtà. Allora, come un guaritore fanatico, si ritira ricorrendo a un mezzo indolore e disonorevole: il suicidio. Tutto questo sullo sfondo del bunker, in un’atmosfera indimenticabile in cui, accanto a Goebbels e a Goering, personaggi più modesti, sballottati nella mareggiata, vive l’ultimo atto della tragedia. L’interpretazione di Albin Skoda, Hitler, è uno dei coefficienti del successo del film.

 Preso dal libro: “Il ciak dei registi indomiti”. Il film “L’ultimo atto” è riapparso in questi giorni in Germania.