PER ALCUNI E’ UN GRANDE. ANCHE PER NOI

FATEMELO DIRE
di MAURIZIO LIVERANI
 
PER ALCUNI E’ UN GRANDE. ANCHE PER NOI

In quale misura Monica Vitti può avere influenzato Michelangelo Antonioni? “Indipendentemente da Monica trovo che le donne abbiano una sensibilità superiore a quella degli uomini. Monica mi va bene. L’averla conosciuta mi ha molto aiutato. Ma non è detto che non possa fare anche senza di lei”. In questa affermazione, di tanti anni fa, di Antonioni era implicito il senso del distacco. Del resto, lei, prima di offrirsi alla commedia all’italiana lo ha spesso “tradito” in questo senso. I film di Antonioni sono stati a lungo discussi. I letterati storcevano il naso. Mario Soldati se la cavò dicendo: “Dovete capirlo, Antonioni ha fatto le tecniche…”. Per molti sembrò un giudizio negativo, per altri un apprezzamento. Verso il regista ferrarese, il regista riminese Fellini ha affettato, per qualche tempo, una deferenza non scevra da una guardinga reticenza. I “grandi” del cinema italiano non si sono mai molto amati. A François Truffaut che gli chiedeva notizie sulla “Dolce vita”, Rossellini (suo maestro) disse con paterna bonarietà venata di condiscendenza: “Fa spicco…”, sottintendendo, “in mezzo a tanti somari”. Pur considerando Rossellini “l’uomo più intelligente che abbia conosciuto”, Truffaut non è mai stato disposto a condividerne interamente i giudizi; è sempre stato incline a lasciargli l’ultima parola, ma riservandosi un poscritto che incominciava a comporre appena l’altro era lontano. Ricordo che a Cannes l’ultima riunione della giuria del Festival, del 1963, fu agitata da un violento scontro tra Soldati e Truffaut a proposito, appunto, dell’”Eclisse” di Antonioni. Soldati arrivò a prendere per i risvolti della giacca il vessillifero della nouvelle vague e a sospingerlo verso una vasca d’acqua. Il capitolo delle ostilità registra un’appendice: la severità con cui Pietro Germi giudicò l’opera di Antonioni “degna di essere bruciata”. “Deserto rosso” sarà registrato negli annali del cinema come il primo tentativo di cambiare i colori della realtà per adattarli allo schermo. Per avere certi effetti coloristici, Antonioni non è ricorso a particolari filtri o particolari obiettivi. Ha ingaggiato un drappello di imbianchini con secchi e pennelli e ha risolto l’incognita di rappresentare la ripresa a colori di un ambiente naturale. Una intera strada di Ravenna è stata completamente ridipinta; verdi prati sono stati dati alle fiamme perché avessero un colore ruggine, persino le patate del mercato sono state ritoccate. Tra oneri e riconoscimenti, il regista non si sentiva del tutto a proprio agio. Era fiero che Strawinsky abbia chiesto di volerlo conoscere; che l’inventore del cervello chimico, Stewart, abbia chiesto di incontrarlo. Che otto ammiratori russi gli abbiano scritto una cartolina; che in Inghilterra lo preferivano a Bergman. “Attestazioni di stima che ho ottenuto a prezzo di enormi sacrifici. Con il cinema ho rinunciato ad arricchirmi. Ho rifiutato circa centocinquanta film”. Perché “Deserto rosso”? Significa che viviamo in un deserto in cui poche sono le oasi. Perché “rosso”? Perché, nonostante tutto, è vivo, sanguigno. I registi della nuova “ondata” valutano i film di Antonioni semplici inni alla Quaresima, affermando anche che per capire “8 e mezzo” di Fellini bisogna vederlo almeno dieci volte. Ritorna, dopo i film “panettone”, la domanda che ci facciamo ripetutamente: “Perché una gran parte del pubblico preferisce queste e altre simili pellicole ai film d’arte?”. La risposta potrebbe essere una sola. Il pubblico italiano – grazie allo scadimento del gusto prodotto dalla televisione – preferisce “non esistere” sul piano culturale; si direbbe che non abbia più fiducia in se stesso anche come essere pensante. Sembra che cerchi intrattenimenti da spettatore, che non ami né l’arte né la cultura. Dai film italiani il pubblico pare attendere soltanto la rappresentazione della nostra natura pupazzettistica.

MAURIZIO LIVERANI