– di MAURIZIO LIVERANI
– Incapaci di graduare i rinnovamenti, teatro e cinema subiscono un progressivo svuotamento di idee e contenuti. Pur di mantenerli in vita si enfatizza l’opera della regia con accensioni improvvise in cui la messa in scena copre il vuoto sottostante e il pubblico speranzoso è ritornato al teatro piccolo borghese. E’, dunque, un errore vedere nell’indifferenza degli italiani la fonte dei malanni in genere anche quelli dello spettacolo. Sono passati anni da quando lo spettatore sentiva e si commuoveva per ragioni idealistiche, sentimentali da fumetto, da comica finale. Questo italiano che “non risponde” e che dovremmo selezionare e redimere non persuade nessuno, lo possiamo accettare per comodità di polemica. E’ un alibi che non regge. Lo spettatore, come l’elettore, “sa” ciò che non vuole più; è stanco di spettacoli irrigiditi, senza vita, senz’anima. Lo svilimento di questo teatro pubblico e cinema è cominciato quando la critica marxista, soprattutto con Aristarco e Barbaro, impose il neorealismo ai nuovi autori. Il male è nato da lontano, da quando allo spettacolo, come nelle ferrovie, le sbarre hanno impedito di prendere l’orientamento dettato dalla fantasia e non dalle ideologie. Diktat che lo spettatore non vuole più. E’ un bene che serve a smascherare questo maledetto imbroglio in cui più che la competenza conta l’appartenenza politica. Negli Enti lirici il primo a ribellarsi, anni fa, è stato Gioacchino Lanza Tommasi, il nipote dell’autore de “Il Gattopardo”. L’appartenenza politica non gli impedì di denunciare lo sperpero di denaro pubblico. Si fece di tutto per rendere poco credibile la sua indignazione. Va anche ricordato che quando il socialista manciniano Beniamino Finocchiaro parve candidato alla carica di presidente dell’Ente Gestione Cinema, la sua fama di onesto provocò una reazione furibonda nel suo partito e in quello comunista. Per impedirgli di arrivare a quella carica, lo bollarono come nemico del cinema e come “reazionario”; per poi subito osannarlo quando venne candidato alla presidenza della Rai-Tv. Il cinema, come lo si pratica da noi, è quasi sempre nemico della novità. La novità è frutto di un ingegno indipendente e della indipendenza si è avuto sempre paura. Immaginate un autore che scavalchi gli argini del controllo statale e che incoraggi l’insubordinazione alle direttive di chi detiene il potere dello spettacolo? Questo vale per il teatro come per il cinema, costretto a correre sempre sugli stessi binari, e per la letteratura (quella vitale ha difficoltà a trovare approdi per farsi conoscere). Era inevitabile che con il tempo il mondo dello spettacolo diventasse il mondo della ripetitività o addirittura del nulla. Il discorso, lontano dalle asprezze personali, si fa più interessante quando si entra nel cuore del problema. Chi paga? L’impresario di tasca propria o lo Stato con i soldi tratti dalle nostre tasche? Gli Stabili, che registrano deficit crescenti, riusciranno a ridestarsi o si sbarazzeranno dei consueti tormenti? La diagnosi può essere soltanto avventata; bisogna (per quanto?) pazientare. C’è gente che comincia a fare autocritica. Si può aver fiducia soltanto in chi non milita nella politica attiva. La fine, già proposta dall’ex ministro delle Finanze Visco, di questo scandaloso andazzo si annuncia perché molti che dicono la verità incontrano il plauso. Uno scandalo non può essere perdurante.
MAURIZIO LIVERANI