di Maurizio Liverani
Mai come in questi mesi gli italiani hanno sentito scricchiolare l’ottimismo nello “stellone”. Con rincrescimento dobbiamo constatare come il primo ministro Conte potrebbe essere messo nel novero degli “utili idioti”, anche oggi quando di essi non ce ne sarebbe alcun bisogno, tanto sono numerosi. Al partito della “falce e martello” è venuto a mancare quell’Isaac Deutscher che definì il comunismo italiano in questa esatta sintesi: “Dopo aver smesso di difendere il marxismo cominciò a difendere l’umanità del marxismo: si credeva infallibile con ogni sua asserzione”. Per esempio, trattò l’invasione dell’Ungheria, nel ’56, come quella di Praga nel ’68, con occhio benevolo. In questi due infausti eventi intravvide un’ideologia non basata sull’odio e sulla sopraffazione, ma un modo di fare politica con metodi garbati, purtroppo sopraffatti dai cingolati sovietici. Da allora, il monopolio comunista sui media e sulla stampa è diventato, giorno dopo giorno, più evidente. L’Italia, paradiso dei pseudo-concetti, offrì il terreno più fertile per l’immagine rassicurante del comunismo. Fu suggerito ai perplessi che se volevano avere le borse sonanti, la regola era di rispettare il concetto che i comunisti non sono mai stati “servi dei russi”. Il trasformismo si installò non solo nel Pci, ma in tutto il Paese. Bisogna lavorare da dentro, non lasciare il partito. Il trasformismo è sempre stato in gran voga da noi; è un talento che gli italiani – ripeteva lo storico Max Smith – hanno in massimo grado. Oggi è un talento più convinto di quello di ieri. Fa diventare eterni agitati affetti da “marxismo tremens”, riconoscendo a se stessi il diritto che negano agli altri di sbagliare una, due, tre, quattro volte. Da ganzo del fascismo, con spirito fascista, il comunista, passato il pericolo, si è staccato dai pennacchi e dalla retorica; fu facile disaffezionarsi del Duce. E’ stato devoto con spirito stalinista, con lo starter del “revisionista”, sebbene Krusciov non abbia mai dato il via alla trombatura del gran sanguinario Stalin. Per oscuri impulsi e obbedendo al suo zelo redditizio, il comunista diventò “ex”, con il suo inscalfibile opportunismo, soltanto quando non c’era più rischio. Sfrenati arrivisti, questi trasformisti diventano ex per essere più arrembanti e continuare a sgambettare e saltellare nel ceto egemonico. Grazie alla lunga militanza, l’ex si ritiene custode dei supremi valori dell’intelligenza e della cultura. Nelle nuove militanze si comporta come un pizzardone nella complessa toponomastica della politica. Oggi l’ex è spocchioso, si strofina ai poteri forti; un’ambizione avida lo sospinge a cercare cariche nelle tv, con le sovvenzioni statali e no. Aspreggia gli ex degli altri partiti con il piglio del vivace inquisitore. Vaglia le loro conversioni, boccia e promuove. L’ex, dopo il “memorabile” ’56, era colui che da posizioni di dissenso verso l’Urss sosteneva che la fronda dovesse svolgersi all’”interno” del partito. La “canna pensante” del “Paese Sera”, Ruggero Zangrandi, dopo la “normalizzazione cingolata”, dell’Ungheria era strenuo fautore di questa mutazione del Pci dall’”interno”. Molti presero la palla al balzo, accordandosi all’atteggiamento del deluso, ferito dal sopruso dei carri armati sovietici. Si incaricarono di rappresentare il “crisismo”, una sorta di ideologia sopravvissuta alla caduta del Muro e che consente di guadagnare i primi posti nella stampa di sinistra, e di destra, con accorti compensi. Sono gli ex e i fiancheggiatori più ascoltati; la persistente nostalgia del buon tiranno si sposa, in loro, a una voluttuosa maldicenza. Rivelano una spiccata voluttà di restare fuori dei ranghi; ostentano una coscienza inquieta, arma infallibile, come dimostra Pasolini in “Petrolio”, per integrarsi. Una moda che è tornata.
Maurizio Liverani