PIRANDELLO FOREVER: CON MARCELLO AMICI A SANT’ALESSIO

Pirandelliana, organizzata dalla Compagnia Teatrale La bottega delle maschere, diretta da Marcello Amici, è una delle rassegne teatrali più importanti e seguite dell’Estate Romana. Le prime due edizioni (1997, 1998) vennero  rappresentate nel Teatro Romano di Ostia Antica. La rassegna ha poi  proseguito nel Giardino della Basilica di Sant’Alessio, uno degli spazi più intensi dell’Aventino, che si affaccia come un solenne balcone sulla Città. Un luogo antico, austero, silenzioso ed elegante.

L’aria che si respira nel Teatro della Bottega non è raddensata, austera, severa, ma è ironica tragedia e commedia tragica. È teatro pirandelliano che nella XX Edizione affronta il problema della solitudine esistenziale che opprime e condiziona.

La Rassegna si svolgerà dal 7 luglio al 7 agosto, saranno rappresentate a sere alterne le seguenti opere del drammaturgo siciliano:

Enrico IV (in scena il martedì, il giovedì, il sabato);

L’altro figlio – La giara (in scena il mercoledì, il venerdì, la domenica).

 

ENRICO IV – Circa venti anni addietro, in tempo di carnevale, c’era stata una cavalcata in costume dove ognuno aveva rappresentato un personaggio storico con la sua dama accanto. Uno di loro, mascherato da Enrico IV di Germania, cadde da cavallo, batté la testa e rimase fisso, per vent’anni, nel suo personaggio. È l’antefatto.

Ora egli vive – Enrico IV –  in una villa solitaria dove, un giorno, si presentano quella che fu la sua dama accanto, il suo rivale in amore che fece springare il suo cavallo facendolo cadere e un medico alienista che con un trucco violento spera di guarirlo come un orologio che si sia arrestato a una certa ora e che si rimetta a segnare il tempo, dopo un così lungo arresto. Il mascherato, però, è guarito. Se ne era accorto un giorno guardandosi nello specchio, ma aveva preferito restare pazzo; come un vecchio attore, aveva voluto restare nei panni del suo personaggio per viverla con la più lucida coscienza la sua pazzia. Quando sul finale quello che fu il suo rivale in amore scopre che Enrico IV non è un pazzo e la tensione del racconto raggiunge il massimo della sua iridescente angoscia aprendosi ad un omicidio, la regia fulmineamente lo esclude con una fervida intuizione?

Note di regia. La regia è uscita dalle abitudini, dalle pratiche pirandelliane, non ha interpretato la maschera e la persona, ma capito perché Enrico IV si piace in quella carnevalesca rappresentazione che dà a sé stesso e agli altri della sua regalità. Non più quel raisonneur in punta di fioretto che con abilità istrionica si destreggiava sul filo teso della pazzia e della finzione, ma un teatrante che dietro il sipario del suo travestimento offre ai suoi ospiti lo spettacolo un po’ compiaciuto del suo virtuosismo dialettico. Il più tragico personaggio di Pirandello giuoca la propria parabola in una carnevalata fittizia e claustrale. La sua esistenza si risolve e si dissipa in azione scenica. Ecco perché la recitazione, la ricomposizione del testo, le musiche, tutto diventa spia di una precisa lettura registica dove il confine tra personaggio-uomo e personaggio-attore si rarefa sino a diventare inafferrabile. Enrico IV è un attore e un poeta che conosce la stoffa di cui sono fatti i sogni, due ruoli per lo stesso personaggio, come non a caso insegna Michel Foucault nella Storia della follia, e tanti drammi di Shakespeare stanno lì a testimoniarlo. La regia ha geometrizzato la follia del testo, ha innalzato una linea di confine dalle pareti alte e sottili. Oltre si potrebbe andare, ma non si può uscire. Quando i cosiddetti saggi tenteranno di scombinare gli equilibri, la cittadella si rinchiuderà nel regno dell’immaginazione perpetua, della solitudine esistenziale.

Enrico IV è l’altro versante del quotidiano, è l’aspirazione a mettersi in salvo nei ruoli intimati dal mondo della fantasia. È un poeta malinconico avvolto in un mantello di solitudine, è un Amleto che discetta sulla condizione umana di cui è vittima e trionfatore, indossa e si fa carico del travestimento per la vita. E’ l’attore che assume su di sé la funzione della follia per scrollare le certezze che ancorano l’esistenza. È lo scrittore che si rinchiude definitivamente nella sua arte.

 

 

L’ALTRO FIGLIO – Protagonista è una donna anziana e ridotta in miseria, Maragrazia, con due figliacci lontani da anni che non danno più notizie di loro. Ad ogni partenza degli emigranti da Fàrnia, la donna diventa l’interprete di un rituale grottesco, la stesura di una lettera da consegnare ai suoi figli, a Rosario di Santa Fè. Nel lamento della vecchia madre c’è dissonanza con la sua personalità forte e complessa; in giro, non c’è pietà per la sua desolazione. Nel paese vive un altro figlio che vorrebbe prendersi cura di lei, ma la donna non l’ha mai voluto considerare come suo. Quel figlio è il frutto di uno stupro subito da un brigante che le uccise il marito. La donna medeica sa che quest’altro figlio non voluto meriterebbe almeno lo stesso affetto che lei riserva agli ingrati figli lontani, ma dice che non appena lo vede diventa tutt’un fremito. È tal quale suo padre, finanche nella voce, dice Maragrazia, non sono io! È il sangue che si ribella!

Note di regia. Ambientato in Sicilia ai primi del ’900, l’atto unico tratto dalla novella omonima ha come disperato sottofondo storico l’emigrazione massiccia della gente povera del Sud. Una popolana, Maragrazia, soffre perché i suoi due figli partiti per l’America, non si sono più curati di lei che pateticamente tenta di richiamarli a sé, promettendo loro la donazione di uno sconnesso casalino. L’anziana donna non vuole accettare le cure di un altro figlio nato dalla violenza che fu costretta a subire da un brigante, anzi le rifiuta violentemente. La sua fu una maternità non voluta e quel figlio si trova a scontare colpe non sue. È una delle tre tesi, insieme all’emigrazione, che la regia trasferisce nella sua chiave di lettura. La scena è scarna, i richiami di chi parte sono un’eco che si fonde con il suono dell’armonica di Jaco Spina, voce cruda di una terra tradita dalla migliore gioventù che se ne va: Pioggia in faccia e vento alle spalle: si rompano il collo, maledetti! I migranti partono fingendo allegria, chi è già in America regala illusioni di ricchezza, chi rimane ha nel cuore cose nere e la consapevolezza che nulla cambierà. Scrittura e ripetizione è il leitmotiv. Emigrazione senza ritorno, lettere senza risposta e Maragrazia, continuando nel suo rituale, ripeterà un movimento senza effetto.

 

LA GIARA Piena anche per gli olivi quell’annata, don Lolò aveva comprato un’altra giara bella panciuta e maestosa che un giorno misteriosamente viene trovata spaccata in due. Viene chiamato Ziʹ Dima, un conzalemmi che per fare il suo mestiere ha scoperto un mastice miracoloso. Don Lolò non sente ragioni, la sua giara dovrà essere ricucita anche con punti di ferro. A questo punto la regia inserisce un intermezzo. Ziʹ Dima inizia la riparazione, ma nell’accomodare la giara vi rimane goffamente intrappolato per non averne calcolato il collo stretto e, tantomeno, l’ingombro della sua gobba. L’unico modo per uscirne è quello di romperla; l’avvocato Scimè sentenzia che se ciò avvenisse, Ziʹ Dima dovrebbe poi pagare il valore attribuito alla giara riparata. Il conciabrocche rifiuta, si rintana di più nella giara come in un involucro difensivo, mentre Don Lolò si allontana infuriato. Nella notte scoppia un festino con balli e canti attorno alla giara da cui spunta beata solo la testa di Ziʹ Dima che fuma con la sua pipetta intartarita! Don Lolò che aveva cercato l’aiuto della legge per intrappolare Ziʹ Dima imbestialisce completamente, con uno spintone manda a rotolare giù per la costa la giara che va a spaccarsi contro un olivo. La vince  Ziʹ Dima che riacquista la libertà e viene portato in trionfo nella notte di luna dagli abbacchiatori e dalle raccoglitrici  in festa.

Note di regia. La commedia è un raro esempio di aggregazione di elementi naturalisti utilizzati a sostegno della dialettica umoristica sulla roba di una Sicilia verghiana. Si confrontano due ceti sociali: don Lolò Zirafa è un uomo ricco e ossessionato dalla brama del possesso che vive nella perenne e logorante diffidenza del prossimo; Ziʹ Dima Licasi è un conzalemmi, un  personaggio al limite del grottesco, immerso nella sua solitudine. Come tutti gli istrioni pirandelliani ambisce ad una patente, quella d’inventore di un mastice miracoloso per acconciare le terraglie. Viene descritto come un vecchio sbilenco…come un ceppo antico d’olivo saraceno. Nella loro solitudine, Ziʹ Dima e Don Lolò si incontrano davanti ad una giara spaccata.

La giara è un recipiente di potere, è l’involucro della nascita, l’utero e insieme la tomba, funge da totem, è un oggetto simbolo con il quale tutto quel mondo si confronta. La regia si è accorta che l’atto unico è percorso da nuclei di animistiche visioni evocate dalla novella omonima e nella notte, quando con la luna tutto incomincia a farsi di sogno sulla terra, rinnova tutto il racconto che diventa un esperimento spiritico popolato di magiche fantasie. Ziʹ Dima si trasforma in un folletto gobbo dai molteplici aspetti, uomo-albero e uomo-giara. È un dio della fertilità che scatena sull’aia una celebrazione dionisiaca della raccolta con i contadini che ballano attorno alla giara come tanti spiriti della notte. Si leva un canto alla luna, come quello di Ciaula che per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte piena del suo stupore. Ziʹ Dima povero, sfruttato e deriso prevale sul padrone ricco e avaro. La giara sta lì come una metafora della trappola esistenziale da cui è possibile evadere solo con un guizzo beffardo.

 

La regia non ha mai dimenticato che solo al vero teatro di parola è dato trasferire sulla scena il testo scritto nella sua compiutezza letteraria. Le parole trasferite sul palcoscenico devono essere innervate di vita, ricreate, prima di darle in prestito alla finzione, perché così solo diventano verità, a volte anche illusione di realtà, per fare uscire dal teatro gli spettatori come in quel quadro del Carrà.

 

LA BOTTEGA DELLE MASCHERE

Giardino della Basilica di Sant’Alessio all’Aventino

Piazza Sant’Alessio 23 – Roma

PIRANDELLIANA 2016

XX Edizione

dal 7 luglio a 7 agosto 2016

ENRICO IV

(in scena il martedì, il giovedì, il sabato)

L’ALTRO FIGLIO – LA GIARA

(in scena il mercoledì, il venerdì, la domenica)

di Luigi Pirandello

con Marcello Amici, Sara Berni, Giacomo Bottoni, Andrea Carpiceci,

Lorenzo D’Agata, Mario De Amicis, Lucilla Di Pasquale, Alessandra Ferro, Valeria Iacampo, Salvatore Iermano, Valerio Ludovici, Katia Maglione,

 Giulia Paoletti, Anna Varlese, Marco Vincenzetti

Regia  Marcello Amici