QUEL GENIO SCONTROSO

FATEMELO DIRE
di MAURIZIO LIVERANI

QUEL GENIO SCONTROSO

Alla prova del nove della sincerità, Charlie Chaplin è stato promosso al festival di Venezia quando, nel ’72, ritirando un premio non temette, con voce esile, di affermare parlando di sé come attore: “La parola arte non è mai entrata nella mia testa o nel mio vocabolario”. Davanti al pubblico che lo applaudiva ebbe il coraggio di dire che “teatro e cinema significano semplicemente un sistema per vivere e nulla più”. Con la sua voce terribilmente stanca aggiunse: “C’è sempre stata in me una forte inclinazione verso gli affari”. La frase che scandalizzò di più le vestali del cinema-arte fu questa: “Le mie sole ambizioni sono state il denaro e le donne”. “Io sono un romantico”, preferiva ripetere, “il romanticismo è  moderno come il sesso, l’amore e la psicanalisi: è il ‘sine qua non’ di tutta l’umanità. Senza questo sentimento la vita sarebbe ben grigia cosa. Io sono un romantico e credo indispensabile esserlo”. Fuori dallo schermo Chaplin non ha mai fatto nulla per apparire divertente; cercava di passare inosservato anche nell’immenso scalone, dove lo intervistai, che porta alla chiesa dell’Ara Coeli a Roma in cui si celebrava il matrimonio del principe Massimo. Ai molti giornalisti che lo accompagnavano a Cinecittà, di cui rimase ammirato, disse, osservando le attrezzature: “Se avessi avuto a portata di mano tutti questi giocattoli quanto tempo avrei risparmiato!”. Se ne è andato alla sua maniera, in punta di piedi come i gatti. La sua idea era che non bisogna chiudersi nella tristezza e nel lutto; che la tragedia ha sempre un’altra faccia: il ridere. In  vita non ha mai voluto che lo si definisse un “sommo”. Odiava le grosse parole e gli attributi coniati per i grandi uomini che ingombrano a centinaia i cervelli di quelli che scrivono. Mai una volta Chaplin, nelle interviste, si è lasciato prendere dall’esaltazione di se stesso. Talune pagine descrittive della sua angosciosa infanzia hanno un piglio dickensiano;  lui, Charlie, con un padre ubriacone, una madre che sovente doveva essere ricoverata in manicomio, un fratello che non poteva andare a scuola perché il suo unico paia di pantaloni era stato portato al Monte dei pegni. Era l’angoscia del domani, il desiderio disperato di un affetto. I suoi inizi sono noti; a diciassette anni le tenebre si spalancarono, Fred Karno lo assunse nella sua compagnia comica. E da questo momento che la storia del cinema e la storia di Chaplin coincidono. Pochi sanno che sin da quegli anni New York gli fu sempre antipatica o che per due giorni non si presentò all’appuntamento con l’impresario Mack Sennet. Arrivava sulla soglia dello Studio e tornava indietro. “E’ stata una volontà più forte di me a prendermi per mano e a farmi imboccare quella che sarà la mia strada”. Diceva, negli ultimi anni: “La mia vita non è mai stata eccitante come adesso”. Della fine non voleva sentir parlare. Come i fanciulli si riteneva immortale, uno sberleffo, un marameo alla fine.
 
MAURIZIO LIVERANI
 
(Nella foto,  Maurizio Liverani fra Charlie Chaplin e Oona O’Neil durante la sua prima intervista al genio Charlot, Roma 1954)