di Maurizio Liverani
Nei tempi della “vigilanza rivoluzionaria”, esercitata da Mario Alicata, Antonello Trombadori, Giuseppe De Santis, il critico valutava l’opera semplicemente per il suo contenuto politico. Per esempio, “Riso amaro” dello stesso De Santis, con Silvana Mangano e Vittorio Gassman, “doveva” essere esaltato perché trattava la condizione delle mondine. Era un film così brutto che indusse il critico che mi precedette a “Paese Sera”, Alfredo Orecchio, a stroncarlo nei modi più acconci, definendolo “dannunziano”, sottintendendo che era volgarmente fascista. Grazie a questo suo disguido, subentrai al suo posto ricevendo dal “trombato”, ingiustamente, una pugnalata alla schiena inflittami con un temperino; il rammendo mi costò molto poco e da allora divenimmo grandi amici. Il “marxismo volgare” negava ogni autonomia alla creatività; si voleva a ogni costo un pubblico orientato politicamente a sinistra. Chi si adeguava a questi canoni estetici si guadagnava subito gli altari e la protezione statale. Tra chi si impegnava con storie di forte impronta sociale, alcuni erano sinceri, altri non lo erano affatto. I talenti autentici hanno sempre dimostrato insofferenza per ogni condizionamento ideologico. Per esempio, Federico Fellini che, con “La strada” e “Le notti di Cabiria”, tentò vie più complesse della semplice denuncia delle piaghe sociali. Il fatto che i protagonisti Gelsomina e Zampanò fossero due vagabondi e non due contadini o due operai e si ponessero al di fuori e dal di sotto di qualsiasi sistemazione sociale attirò sul regista accuse feroci da parte della critica marxista. In quelle opere, premiate con l’Oscar, non si intravvedeva l’eroe positivo, il battistrada della società del domani. La nefasta chiusura ideologica ha inflitto al cinema italiano danni irreparabili. Si può ben dire che ha preparato l’attuale declino. Oggi c’è il cinema di denuncia che il mercato rifiuta; dall’altro la commedia erotica, la farsa demenziale che il mercato asseconda. Due modi di fare il cinema che hanno tarpato le ali all’industria cinematografica e, soprattutto, alla fantasia. Il pubblico d’oggi è composto di gente non disposta a farsi turbare nel proprio sonno consumistico. Un tempo osannato, Nanni Moretti è, oggi, disdegnato; nelle sue opere meglio riuscite contempla la caduta degli uomini, sminuiti come certi personaggi di Cechov in cui le più elevate certezze non sono che menzogne in azione. Questo Don Chisciotte delle nostre amarezze conosce, ora, meno ascolti dell’”Ispettore Barnaby” e rischia di essere “smontato”. Perché farsi illusioni, perché mendicare favori a una critica “saltata” da un’opinione pubblica massificata che non ama né l’arte né la cultura. Il gusto livellato verso il basso dovrebbe favorire l’intrattenimento televisivo. Qui le cose vanno anche peggio. Fabio Fazio fa ascolti miserevoli; lo share delle sorelle Parodi è bassissimo, come bassa è l’audence di “Celebration”. I tutori della rinnovata televisione sono i difensori dell’ignoranza. Nessuno che si ponga il problema, nessuno che, correttamente, faccia autocritica di un sistema avallato dai partiti che detengono il potere in questi settori. Nello sguardo dei conduttori non si legge la minima spiritualità inquieta, nulla da spegnere in loro e neppure niente da attizzare.
Maurizio Liverani