di Maurizio Liverani
Gli italiani, ricorrendo il 25 aprile, hanno di quel periodo una coscienza astratta e vaga; sanno bene quello che è avvenuto, anche perché non può né poteva essere nascosto. Di questa storia sanguinosa conoscono gli strascichi penosi; sanno che si è cercato in tutte le maniere di far risorgere speciosamente, al fine di camuffare le colpe della falsa democrazia nata dalla Resistenza, odi e rancori, ridestati in modo grossolano con un’intolleranza che, oltre a provocare come reazione l’intolleranza opposta, si sostiene interamente sul falso. Il magistrato Davigo dice con franchezza che la classe politica italiana è composta di ladri. Ne eravamo persuasi e questa conferma non ci sorprende. La falsità approfondisce la frattura tra questa e quell’epoca, della Resistenza, di fronte alla quale la gran parte degli italiani, non manovrati dai sobillatori dei partiti, è rimasta in questi anni neutrale non potendo accettare il principio che quest’epoca – costellata di scandali sin dai tempi di De Gasperi – sia migliore dell’altra soltanto perché viene dopo. Molti scontenti dell’oggi sono indotti a credere che fosse meglio la vita di ieri. Una barca come l’Italia odierna, che fa acqua da tutte le parti con avarie provocate da sperperi, ruberie parlamentari e ministeriali, demagogia, spirito di persecuzione, incompetenza, in che cosa può accampare una effettiva superiorità morale? Tanti anni fa, Ferruccio Parri – capo della Resistenza – disse che “L’Italia ufficiale con le sue fanfare si è accorta della Resistenza dopo il 1960”. La ragione è semplice: i responsabili delle avarie, per non affondare non sapendo più a che santo attaccarsi, tentavano di puntellare la barca con le stampelle malferme della Resistenza. Naturalmente se si va a vedere da vicino come fa Giampaolo Pansa chi sono questi “resistenzialisti” le sorprese non mancano; i “resistenzialisti” ufficiali da anni sono al potere nel governo, nel sottogoverno, nelle leve dell’informazione statale e parastatale: agiscono d’astuzia, di furbizia con la certezza che la posta in palio sta sul terreno delle cose concrete, non difendono una fede, un’idea, un’ideologia, difendono soltanto una parte politica; il regime che hanno concorso a edificare. E’ questo il punto sul quale siamo approdati se si vuol vedere chiaro. L’antica autocritica di Ferruccio Parri esige, proprio perché era il capo di queste bande, rispetto. Nel ’60 si ebbe netta, dalle sue parole, la sensazione che volesse non dipingersi come un intrepido e cogliere invece i fatti come realmente accaddero. Dall’intervista al “Giorno” il “Maurizio” della Resistenza mostra come in lui si siano incontrate esigenze nobili e esigenze se non basse per lo meno mediocri. L’esigenza nobile era il cambiamento, la “rivoluzione sociale”. “C’erano molte illusioni, abbiamo il difetto delle chiacchiere, noi”, ammise l’ex capo del CLN, “ma ci siamo mai chiesti come reagiva il Paese di fronte ai nostri ideali?”. Va detto che Parri aveva intuito come l’ostilità degli italiani verso la “rivoluzione sociale” nascesse dal fatto che è stata fatta coincidere con la “rivoluzione comunista”; e contro questo “orribile” ideale gli italiani hanno sempre reagito seguendo a volte le direttive di capi balordi, propugnatori di un nuovo imprecisato e che ci ha portato al disastro della guerra. La compensazione nazionalistica è stata offerta in malafede come una droga contro tutte le difficoltà e contro il divieto di lamentarsene. Perché gli italiani avrebbero dovuto optare per la rivoluzione sovietica? Le risposte che “Maurizio” offrì al “Giorno” rivelano, oggi, che tipi come lui, invece di essere sovrani assoluti del compimento di una superiore missione, erano esemplari di una faciloneria che si alimenta soltanto di puntigliosa testardaggine. “Non ha avuto grandi speranze, lei, trent’anni fa?”. Parri, che aveva soltanto 52 anni, rispose: “Io no, erano soltanto speranze retoriche da comizio”. Non c’è voluto molto perché gli italiani bocciassero quegli ideali e quelle speranze. Se passiamo all’oggi, ritroviamo gli italiani di allora che hanno capito l’inganno e si rifiutano di abboccare. Come Parri allora, sospettano, ormai irreversibilmente, che la prima condizione affinché un popolo si schieri e si senta di combattere non per “speranze da comizio” ma per una causa che gli appartiene; non perché lo dicono i capi ma perché coincide oscuramente nel suo intimo con certe direzioni profonde della coscienza collettiva. Ci vorrebbe un’altra resistenza, non ordita fuori dal Paese.
Maurizio Liverani