di Maurizio Liverani
Qualche mese fa le figlie di Ettore Scola dedicarono al padre un film toccante, pieno d’amore e di riconoscenza. Ora che il dotatissimo regista, autore tra l’altro di film come “La terrazza” e “La famiglia”, è scomparso, ci appare come un pre-necrologio senza alcuna aberrazione retorica, che meglio di qualsiasi rimembranza mette in sottordine i ricordi apparsi sulla stampa, annebbiati in gran parte dai soliti luoghi comuni. A chi gli si rivolgeva con l’enfatico titolo di Maestro, Scola replicava: “sono un buon artigiano del cinema”. La morte, a 84 anni, ci induce finalmente a riconoscergli la capacità di mettere sullo schermo il vero carattere dell’italiano; evitava certi gusti dell’opportunismo imperante nella cinematografia italiana. Sembrava più contento parlare di quelli che riteneva i difetti nei suoi film che l’esaltazione delle qualità. Ha vissuto, pur appartenendo alla politica vincente del momento, le falsità esaltate dai vincitori ma, appartenendo a un certo ceto romanesco, aveva grande rispetto per il valore degli sconfitti. Non era animato da grandi ideali. Roma per Scola era sempre avvolta da una certa tenebra che l’ufficialità politico giornalistica voleva non affiorasse mai nelle cronache, al contrario di ciò che avviene oggi. Cercava, nella malinconica Capitale, raggi di sole e di valorizzarla con la macchina da presa. Era il più autentico dei registi romani ma non lo si voleva ammettere. Registi più esaltati di lui sono mutuati dalla Roma che Scola conosceva, un esempio è “La terrazza” più che “La famiglia”. Quello che noi chiamiamo neorealismo ha radici nei film di Scola; anche in questi si rivela un “io” che lo differenzia da tutti gli altri autori e che più riflette il clima del momento. Dovremmo ribattezzare “La terrazza”, anzi potremmo riproporla come “Roma amara”. Con Scola, Roma non aveva nulla di dolce.
Maurizio Liverani