di Barbara Soffici
E’ passato qualche anno da quando, con lo spauracchio dello spread (che influenza le banche e il costo del credito alle imprese), l’Italia è stata sottomessa alla politica finanziaria decisa dalla Germania e dall’Unione Europea. All’epoca, sfiduciato l’esecutivo di Berlusconi, il governo tecnico di Mario Monti ha accettato il cosiddetto “Fiscal Compact”, ha aderito alla politica di “austerità”, limitando così, di fatto, la sovranità nazionale italiana. Dopo Monti si è cercato di trovare un leader che potesse assumere la guida di un nuovo polo “moderato” di centro, che potesse tutelare e rappresentare i poteri “forti” dell’Italia (quelli economici-finanziari) e sostenere le “riforme strutturali” (ovvero la trasformazione delle nostre istituzioni) e le “riforme di razionalizzazione delle finanze pubbliche” (incentrate soprattutto sull’aumento delle tasse) richieste da Berlino e da Bruxelles. Una politica di rigore, “antisociale”, che è stata portata avanti proprio dal Partito Democratico, con il sostegno del centro e di frange “disubbidienti” del centro-destra. Rottamati infatti Pierluigi Bersani ed Enrico Letta (che covavano non pochi imbarazzi verso il proprio elettorato), messo da parte il Patto del Nazareno e Berlusconi (che avrebbe dovuto “equilibrare” le riforme), l’astro “democrat” Matteo Renzi, con molte espressioni di volontà di diminuire i costi del sistema e quelle imposte (Irpef, casa, ecc.) adoperate per contenere il “galoppante” deficit italiano, è riuscito ad imporsi, a continuare, con tante drammatiche schermaglie sulla flessibilità con i vertici Ue, la politica di contrazione e le riforme impostate dal Professor Monti. Ora si è giunti al passo decisivo: in gioco c’è il futuro del Paese. Gli italiani sanno bene quello che potrebbero lasciare (un sistema che sicuramente deve essere cambiato) ma non sanno invece quello a cui vanno incontro. Sul voto del 4 dicembre sono concentrate tutte le polemiche politiche, che non si arrestano di fronte alla complessità, per alcuni farraginosità, di una riforma che supera il bicameralismo perfetto (per produrre leggi più velocemente, senza il fastidioso “rimpallo” tra Camera e Senato) e stabilisce le nuove competenze dello Stato e delle Regioni (assai ridotte), ma che non riduce di molto i “costi” e che potrebbe creare un sistema “poco democratico”, totalmente dipendente ai voleri di chi comanda in Europa. Matteo Renzi e il suo esecutivo stanno tentando di tutto per convincere gli italiani a dare il proprio assenso alla Riforma Costituzionale, “al nuovo”, sollevando scenari catastrofici per la vittoria del NO, rinnovando la disponibilità a rivedere la legge elettorale, frenando la riforma della Pa (il testo definitivo sui dirigenti si avrà forse il 27 novembre), ribadendo che “il SI fa bene ai mercati” (gridato alla Leopolda a Firenze) e che per avere un’Italia più forte, in grado di contrastare Bruxelles, “per cambiare l’Italia e l’Europa, per avere una Ue più giusta e vicina ai cittadini (slogan della manifestazione del Pd a Piazza del Popolo, a Roma)”, è necessario che il Referendum Costituzionale passi. La credibilità dell’Italia in Europa è legata dunque alla realizzazione delle riforme che ci sono state imposte dalla Germania e dall’Unione. E il pressing esercitato da Berlino e Bruxelles ha già fatto surriscaldare il termometro dello spread. I mercati (per loro interessi) stanno appoggiando la battaglia di Renzi per il SI, evocando, in caso contrario, pericolosi rischi per il debito e per la solidità delle banche. Lo “spauracchio” spread torna quindi ad alimentare il timore di una possibile instabilità, a vantaggio di una nuova, forse definitiva, sottomissione degli italiani ai diktat dei poteri economici-finanziari dell’Eurozona e globali.
Barbara Soffici