“Spaghettanti dello spirito”, così Thomas Mann definiva gli italiani. “C’era una volta il West” è stato accolto come l’ultimo soprassalto del western all’italiana, quello che prelude all’estinzione; anche dai più benevoli tra i critici stranieri il film di Sergio Leone è stato preso come una sorta di comunicazione ”in extremis”, come un testamento. Soltanto i francesi hanno dato slancio alla loro ammirazione. “Nemo propheta in patria”. Per “Il buono, il brutto e il cattivo” i critici d’oltralpe hanno parlato di fantasia ariostesca.
Per anni, Vittorio Gassman ha sostenuto ruoli che riecheggiavano quelli da lui interpretati sulla scena. Appeso all’armadio lo “stiffelius” dell’attore tragico, ha indossato la tuta in voga nel nostro cinema: quella dell’italiano “scafato”, furbastro, pieno di simpatia e di gretto provincialismo. Con scrupolo ha assorbito la faciloneria e la ciabattoneria che contaminano chi vive a Roma. Di lignaggio aristocratico, Gassman ha ingigantito quanto in lui c’era di popolare e di plebeo.
Gli attori che valgono sono tutti versati nel cinema comico-dialettale; l’impossibilità di avere volti di giovani attori e attrici ha sempre condizionato il nostro cinema non concedendogli di approdare su posizioni solide.
Altrove il cinema fa ancora leva sui divi. Non è, dunque, mancanza di autori quello che assilla il cinema italiano, mancano volti protesi verso il divismo. E la storia del cinema si fa sulle facce.
Personaggio centrale di “Deserto rosso” è una donna, Monica Vitti, afflitta da una crisi psichica. Dimessa da una clinica cerca di inserirsi nella realtà; il tentativo fallisce. Ecco la trama farcita da delicate esplorazioni psicologiche, avvolte in quell’aurea particolarissima che fa il fascino dei film di Antonioni. Perché “deserto rosso”? Perché, nonostante tutto, è vivo, sanguigno. Vi abitano uomini e donne portatori di sofferenze e di dolorose sconfitte. Soprattutto donne, perché le donne hanno, nei film di Antonioni, un nobile spicco mentre gli uomini sono quasi sempre fiacchi e irrisoluti.
I registi della nuova “ondata” valutano tutti i film di Antonioni semplici inni alla Quaresima, affermando anche che per capire “8 e mezzo” di Fellini bisogna vederlo almeno dieci volte.
Quale credibilità può avere una rassegna che si fregia del titolo “d’Arte” quando il retroterra culturale si nutre di anemiche gag?
Non c’è più niente che riesca a “coinvolgerci”. A queste conclusioni era approdato il povero Fellini poco prima di morire.
Prendendo alla lettera un film come “Tolo tolo” la speranza è d’obbligo: quella di un ritorno del “marziano” che si dibatte per trovare la via di una espressività più alta a Cinecittà.