FATEMELO DIRE
di MAURIZIO LIVERANI
STALIN “SORVEGLIATO” SPECIALE
Michele Serra, quando era direttore del “Cuore”, immaginava che il mio film “Sai cosa faceva Stalin alle donne?” fosse di un autore inglese. Soltanto un non-italiano o un fesso – nell’accezione prezzoliniana del termine – può proclamare nel 1969, per lo più in maniera grottesca, di aver voltato le spalle al comunismo. Bisogna partire dalla premessa che l’ex è esposto a dure sanzioni; è guardato con sospetto dagli altri i quali, come Ennio Morricone (autore della colonna sonora del film), lo considerano alla stregua di un grullo. Gli ex di allora che restavano “dentro” il pci erano soltanto dei furbi. Atei politici, fingendosi “credenti” si dedicavano al massimo alla “crapula” delicata della maldicenza, della piccola rivelazione e del “bon mot”. Perché meravigliarsi? Il racket della paura nasceva dalla sfiducia nell’al di qua e spiega perché in Italia le conversioni conclamate siano, e sono tuttora, rare. Con lo “Stalin” ho dato un cattivo esempio e sono stato punito con il boicottaggio più stupido e vile: quello del silenzio. Più recentemente, Massimo Bertarelli, critico televisivo del “Il Giornale”, ne dette notizia senza omissioni, parlandone con acume e intelligenza. “Sbaglierebbe del tutto – scrisse Giancarlo Vigorelli nel ’69 allorché il film apparve al Festival di Venezia – chi lo vedesse in chiave politica e lo interpretasse come un pamphlet anticomunista” e aggiunse: “E’ condotto avanti come una ironica sfottitura di qualsiasi fanatismo, del fanatismo universale, del conformismo di ognuno e del servilismo di tutti”. Nel suo “Frasario essenziale per passare inosservati in società” (ed. Bompiani) Ennio Flaiano dedica una pagina al mio “Stalin” riprendendo alcune battute. Per tutte una, quella pronunciata da uno dei protagonisti: “Stalin era più che un eroe, era un uomo che sapeva vestire”. Questo personaggio approda al comunismo non per convinzioni intime o per idealismo; ha scoperto la propria straordinaria somiglianza con grande dittatore; a forza di identificarsi con il “gran capo” crede, per transfert, di essere Stalin, indossando divise, cappotti e berretti. Sa tutto del suo idolo e, affinché la trasposizione sia completa, si imbottisce – imitato dal suo compagno Aldo (Helmut Berger) – di citazioni di Lenin, Trotzky e Marx. Trotzky, principale rivale di Stalin, è visto anch’egli come un uomo che sapeva vestire. Si fece abbozzare una splendida uniforme dal costumista hollywoodiano Annekov; quella splendida uniforme è uno dei costumi più prestigiosi che si ricordino addosso a un rivoluzionario: cappotto di pelle nera, berretto di pelle scura con occhiali protettivi e stivali donati dagli operai del Feltro-Trust di Uralsk. Tutto vero, tutto verificabile ma trasposto nel film in chiave comica e paradossale; cogliendo l’attimo in cui la “crisi” subentra, quando, al posto dell’elegante Stalin, cominciano ad avvicendarsi “uomini grassi”, con la cravatta e la lobbia; insomma, i burocrati. Un vero dramma estetico al quale il protagonista-simbolo reagisce cercando nuove identificazioni, come i più eleganti Che Guevara, Fidel Castro e Ho-Ci Min. La durezza, l’efficienza della “democratura” italiana vanno cercate anche sotto la crosta della puerile persecuzione alla quale sono stato sottoposto. Ennio Flaiano amava la mia pellicola; avrebbe preferito un altro titolo, ad esempio “Il dittatore”. Lo ha lasciato scritto in un quadernetto nel quale dice che la notte successiva alla visione del film “aveva dormito bene”; “Se un film non mi piace passo la notte insonne”. Con il titolo originario “Senza più bandiere” non avrei trovato produzione e distribuzione. Senza più bandiere stava senza più giocattoli: i grandi miti della storia contemporanea, grazie ai quali i protagonisti del film si sentono sicuri, autorevoli, ambiti e contesi. A Venezia ci fu un tentativo della delegazione sovietica di impedirne la presentazione. La prima operazione di boicottaggio è stata compiuta a Roma dove il mio “Stalin” fu ritirato con il ricatto fiscale all’esercente. La censura più vile è stata consumata a Bologna dove il film fu rimosso nonostante fosse al secondo posto tra i successi natalizi. Ci fu persino un’interpellanza liberale al Consiglio comunale della città in seguito alle proteste che arrivarono a “Il Resto del Carlino”. Il film nacque e apparve al pubblico grazie alla testardaggine del compianto produttore Angelo Rizzoli senior. Sergio Leone voleva farne una versione in inglese, convinto che su quel mercato avrebbe avuto un enorme successo; la morte glielo impedì. Allo “Stalin” fu messa la camicia di forza e scomparve per riapparire grazie alla signora Canetta che è andata a disseppellirlo dal magazzino della Fininvest. Mi illudevo che il tempo avrebbe aggiustato le prospettive; la provocazione del 1969 non è stata ancora digerita dalla sinistra. La loro egemonia culturale confida nell’indifferenza generale della cosiddetta destra-culturale che con la sua ignavia dà, a questa egemonia, un contributo decisivo. I protagonisti del film , per sfuggire a questa realtà cretinizzante, emigrano in un “altrove” grottesco, in un al di là dove l’”anima” – questa prosopopea della materia come la definisce Emil Cioran – si consegna al sarcasmo senza la pretesa di fare la morale.
MAURIZIO LIVERANI