di Maurizio Liverani
La morte di Charles Manson avviene proprio in concomitanza al grande risalto dato dalla stampa allo stupro “d’autore”. Lo stupro è l’atto più spregevole che si possa compiere ai danni, soprattutto, di una minorenne. Roman Polanski costrinse un’adolescente a rinunciare alla purezza transitoria con una sopraffazione sessuale. Per questo è stato condannato in America, paese nel quale non può tornare. In sostanza, quell’atto non è stato un atto d’amore; si è trattato di un non amore, quindi della perversione dell’amore, della sua restaurazione meccanica. Oggi si fa un gran chiasso con questo tipo di restaurazione meccanica del sesso. Con lo stupro, Polanski introdusse la difesa dell’artista in crisi. Da allora, dopo “Rosemary’s Baby”, gran parte dei film che abbiamo visto e vediamo smercia sesso sotto l’alibi di problemi psicologici e intellettuali di vario genere. Ma la condanna che viene fatta delle violenze subite da note attrici è quella di una palese aberrazione. Non si accettano giustificazioni. Molte attrici che denunciano ad anni di distanza traggono da quell’atto, consciamente o inconsciamente, spunto per allargare o raggiungere il loro prestigio. La “voga strozzatrice” del cinema -per usare un’elegante espressione del critico Leo Pestelli- aveva colpito lo stesso Polanski che, di ritorno dal festival di Taormina del 1969, trovò la moglie Sharon Tate sgozzata dall’”omo nero” Manson, capo di una tribù di ribelli fanatici di Woodstock, località a centocinquanta chilometri da New York. Isolato come un composto chimico, pubblicizzato come un discorso sulla felicità, questo raduno segna l’inizio del degrado di gran parte della gioventù contemporanea. L’umanità da allora non è più costretta all’autocontrollo e all’autodisciplina; periodicamente trionfa la negatività. E’ strano che proprio Polanski, oggi autenticamente ravveduto, sia considerato il vessillifero, a torto, della liberazione sessuale. Il suo film “Rosemary’s baby” venne salutato con espressioni come queste: “prodigiose variazioni su un tema gynecological gothic” (Newyorker), “capolavoro di suspense su una gravidanza difficile” (Nouvel Observateur). Questo gran trambusto sulla violenza sessuale è stato prodotto da quel “piccolo diavolo” di Roman che nel 1954 era uno oscuro allievo del centro sperimentale di Lodz in Polonia. Tutta la sua vita è un “thriller” agghiacciante al cospetto del quale quelli di Tarantino sono “mediocri” saggi di “horror” provinciale. Contro la sua volontà di “buon diavolo”, divenuto suo malgrado un “cattivo maestro”, è da tempo uno dei giganti “negativi” dei nostri tempi. Ai tabù tradizionale è subentrata, grazie a lui, la permissività più criminale simboleggiata da Charles Manson, morto dopo quarantadue anni di carcere.
Maurizio Liverani