SVAGATO INTERPRETE DI ROMA

di Maurizio Liverani

In una raccolta di recensioni cinematografiche, uscite durante il fascismo, lo scrittore catanese Ercole Patti (Ercolino per gli amici) è citato a pié di pagina per la sua critica all’”Assedio dell’Alcazar” (1940) di Augusto Genina, un film filofranchista sulla guerra di Spagna. “Ne dissi bene”, confessò scherzosamente, “ma non mi sembrava a favore di Franco”. Sandro De Feo, il critico teatrale dell’”Espresso” degli anni ’50 e che nella raccolta è citato per il suo ardore fascista (“il senso dello squadrismo è immortale”), gli disse indispettito: “E come potevi accorgertene tu se dormivi sempre!”. L’accusa tremenda di “fascista”, assai in voga anche in quegli anni, non sfiorò mai Ercolino. I delatori schiumavano rabbia. Anzi, Ercolino si fece fama di anifascista per essere stato arrestato e chiuso a Regina Coeli. Mentre durante l’occupazione nazista molti intellettuali in odore di antifascismo si erano “volatilizzati”. Ercolino, grazie al suo incoercibile ottimismo, radicato nel suo carattere, centellinava la dolcezza delle “ottobrate” romane che gli suggerirono le più belle pagine di “Quartieri alti” e di “Un bellissimo novembre” vagando per Roma; neppure le SS o le Brigate nere potevano rompere il labile e dolce fluire delle giornate romane. Un mattino di metà ottobre del ’43, al telefono una voce gli chiese: “Il dottore è in casa?”. “Sono io!”, rispose con fervore Ercolino. Al posto dell’addetto alla riparazione della ghiacciaia si presentò il federale di Roma. “Molto educatamente e un po’ dispiaciuto”, mi raccontò, “esibì un mandato di cattura… era un brav’uomo, chissà che fine avrà fatto”. Il suo ottimismo contaggiò persino Giuseppe Saragat (allora impiegato alla Previdenza sociale per nascondere la sua attività di “resistente”) che Patti conobbe nel braccio dei detenuti politici. Al futuro presidente della Repubblica che avvertiva l’avvicinarsi del peggio, anzi del pessimo, lo scrittore disse durante l’ora d’aria: “La prego, non faccia la Cassandra!”. Di lì a poco le Fosse Ardeatine nelle quali sarebbe caduto anche lui se con altri detenuti politici, tra questi Saragat, non fosse evaso, per merito di Giuliano Vassalli, il giorno dello sbarco degli alleati a Nettuno alla fine del gennaio del ’44. L’aneddottica sull’ottimismo dello scrittore catanese, cui il padre, nel ’27, aveva acquistato un attico sul Lungotevere Falminio, è straripante. Lo “isolava”, ricordava Bompiani, dagli altri intellettuali l’”odoroso entusiasmo vitale”. Un entusiasmo che tracimava in sonno davanti allo schermo. Non in teatro. Con la scena ebbe rapporti attraverso il Teatro degli Indipendenti in via degli Avignonesi a Roma. Lo dirigeva Anton Giulio Bragaglia. Tra gli altri scrittori Campanile, Alvaro, Bontempelli, Aniante, Patti propose un racconto dal titolo “La giostra” che sulla scena si chiamò “Carosello”. “I critici”, mi raccontò, “ne dissero bene”. Lo recensì favorevolmente anche Galeazzo Ciano sul “Nuovo Paese”. “Chi”, gli chiesi, “il futuro ministro degli Esteri?”. “Allora era solo il figlio del sottosegretario”. Intestarditosi nella critica cinematografica, nel “Tempo illustrato” di Arturo Tofanelli, con i suoi “pisolini” durante le proiezioni riservate alla stampa ai festival di Cannes e di Venezia è considerato ancor oggi un rinnovatore delle “stroncature”. Se questa forma di “giudizio” diventata una indubbia vittoria della categoria, il merito è tutto dello scrittore siciliano; è oggi praticata in tutti i festival, ma il primo a teorizzarne la validità e la liceità è stato questo simpatico e amato letterato, di cui ero grande amico. Ennio Flaiano, che per via dei sonni critici aveva battezzato Ercole Patti “la salma”, lo definiva anche goldonianamente “fascista de’ garbo”. Tutto per Patti meritava cortesia. Anche la morte.

Maurizio Liverani