di Maurizio Liverani
Ci sono voluti più di cinquant’anni affinché la televisione rendesse onore, con il dovuto spazio, all’olocausto delle Foibe. Perché si è atteso tanto tempo? Primo perché la Jugoslavia di Tito era uno Stato comunista; secondo perché tra Belgrado e gli Stati Uniti era subentrato un pacifico accordo. Nell’aprile del 1971, il Maresciallo Tito decise di venire a Roma. Immaginate, dunque, lo stupore dei funzionari del Quirinale e dei nostri ministri quando, ricevuto il testo del messaggio che il dittatore avrebbe letto, si accorsero che, esordendo, il Maresciallo avrebbe cominciato il suo discorso in questo modo: “A nome di mia moglie e dei miei collaboratori porgo a lei, signor presidente della repubblica italiana (Giuseppe Saragat), il saluto…”. Perché non, anche, “a nome del popolo jugoslavo”? Cosa nascondeva questa omissione? Che fare? Ve lo immaginate un “pranzo di gala” con i ministri in frac e in marsina senza che nei discorsi ufficiali affiori, almeno una volta, la parola “popolo”? Al “pranzo di gala” le orecchie degli ospiti erano in allerta poiché si sperava che il Maresciallo, leggendo, avrebbe corretto quella grave mancanza, aggiungendo quel “a nome del popolo”, senza il quale la visita del primo cittadino jugoslavo sarebbe cominciata sotto cattivi auspici. Niente. Tito non modificò il testo dando la stura a tutte le più bizzarre congetture. Saragat, nella replica, sottolineò, con impeto e calore, di parlare anche a nome del popolo italiano, rivelando di attraversare un particolare momento di grazia. Mentre Tito, con la sua faccia da fermacarte, guardava nel piatto temendo che qualche sicario cercasse di cospargerlo di veleno. Il Maresciallo era venuto in Italia con una gran paura in corpo; gli azzeccagarbugli del suo ministero degli Esteri lo avevano messo in guardia. “Osservi, quando gli riempiono il bicchiere, che il vino esca dalla stessa bottiglia di quello del presidente italiano; se nota qualcosa di sospetto avverta subito gli agenti del seguito”. La visione globale della situazione era, alla vigilia del viaggio, piuttosto allarmante. Anche dall’Ambasciata degli Stati Uniti vennero, al nostro ministero degli Interni, raccomandazioni e offerte di aiuto per vegliare sulla incolumità del Maresciallo. Tito, per conto suo, aveva ampiamente provveduto indossando, sotto la camicia, un giubbotto antiproiettile. Le sue paure spinsero il capo della polizia a chiedere che durante la cerimonia un aereo volteggiasse su Roma, pronto a sventare ogni minaccia di attentato dal cielo. Il destino del dittatore era legato alla protezione della Nato, sebbene in ogni occasione rivendicasse la sua neutralità. Nessuno in quel tempo aveva interesse, nonostante le foibe e l’accordo con gli Usa, ad attaccare briga con un ottuagenario; Mosca continuava a incensarlo, come lo incensava Washington che gli perdonava le foibe e gli impiccati (tanto erano italiani). Mosca tollerava la sua eresia perché sapeva che a Belgrado erano già pronti i successori che avrebbero respinto con il piede il suo cadavere. Saragat per sottolineare la differenza con Tito, disse “Io sono un magistrato della persuasione”; e, cogliendo l’interesse con cui il suo ospite seguiva i movimenti della servitù, rivolse un elogio ai camerieri del “Grand Hotel” che avevano interrotto lo sciopero della loro categoria con l’assenso delle centrali sindacali. Irrideva il capo di Stato jugoslavo che, allora, considerava l’astensione dal lavoro, nel suo Paese, un reato punibile con il carcere.
Maurizio Liverani