di MAURIZIO LIVERANI
Diceva il compianto Sergio Leone: “I film di Fellini, i film di Woody Allen? Quando ne vedi uno li hai visti tutti”. Anche Woody Allen riconosce che la fama cinematografica è un’effimera illusione. Ha diretto il film “Celebrity” per distruggere il mito di Leonardo Di Caprio che in otto minuti di film si scatena nei panni di un divo capriccioso e manesco, incline al turpiloquio. Alla ricerca pertinace della provocazione, Allen sbandiera la sua avversione per la civiltà dello spettacolo hollywoodiano. “Noi – vuol dirci – siamo degli yo-yo umani. Ci muoviamo a zig zag tra la disperazione e la speranza animale”. Allen usa il mondo dello spettacolo come simbolo di un universo in cui abbiamo soltanto sterilità e logomachia. Tutti i film che vediamo oggi – con risultati che variano uno dall’altro – obbediscono a una stessa legge; mancano di una vera ragione, non hanno mai lasciato trasparire, neppure per un momento, la loro “necessarietà”. Perché sono stati fatti? Nell’età dell’oro del cinema nascevano “liberi”, senza l’incubo di una fazione politica da soddisfare. E’ difficile che rinascano attori come Totò e Alberto Sordi. Roberto Benigni sembra abbia scelto la via del silenzio. Rimpiangiamo Totò perché è stato, forse, il solo, da noi, a essersi accorto, da artista, dell’importanza di prendersi gioco della seriosità. Il tempo sanziona la “rinascita” di Totò e la fine del cinema impegnato, travolto dall’utopia e da ideali mercificati. Le grandi idee forza tengono appena il “minimo”. Il testimone in un periodo di crisi come questo, torna al principe De Curtis che ci aiuta a sopravvivere in questo mondo di disperati. Ogni comico italiano vorrebbe trovarsi un patrono, un iniziatore in Totò; un miracolo isolato e senza seguito. Lo stato del cinema comico italiano è fermo a Checco Zalone, alla sua latitante inventiva. Un tipo di comicità accolta indulgentemente da chi non ha perso l’abitudine di andare al cinema. I film per il grande schermo assorbono dalla televisione parole plebee, locuzioni furbesche, neologismi volgari con piccoli variazioni su un soggetto debole, abborracciato. Il film “non c’è”. Nelle pellicole di Chaplin c’è il film e c’è il comico. La storia e le trovate, le gag sono calibrate e dosate con estrema pazienza per un pubblico dal gusto elevato. Chaplin e Totò – gli anni ce lo dimostrano – sopravvivono. La loro comicità è una forma di stupore estroso ed eccitante. A volte c’è anche l’amarezza, la sorpresa della felicità perduta. Rimpiangiamo anche Campanile e Walter Chiari, la loro eleganza, il sorriso e il divertimento. Ci mancano le raffinate nuances che per Sergio Tofano, Carlo Dapporto, Renato Rascel sono state leggi inviolabili come lo sono state per Paolo Poli, Franca Valeri e Franca Rame. La loro ironia è stata una cura necessaria per spettatori ammalati di retorica. Ironici si possono chiamare i messaggi dello scomparso Pino Caruso; le sue apostrofi intellettualistiche e raziocinanti sono creazioni.
MAURIZIO LIVERANI