TROPPA AUTOSTIMA

di Maurizio Liverani

I fedeli di Gianfranco Fini vedevano in lui il continuatore di un mussolinismo aggiornato, cioè molto vicino alla sinistra. Dopo aver definito il Duce un grande statista, per mettersi parecchie spanne lontano dal ventennio, disse che il fascismo era una “pagina nera della storia”, un prodotto della sottocultura, senza tener conto di chi nel Duce riconosce ancor oggi la sacralità della patria. Il nostalgico da allora è disposto alla scontentezza e alla contestazione. Fini, prima delle disavventure giudiziarie, era già considerato un doppiogiochista, accusato di parlare come chi è pronto alle “consonanti ideologiche con la sinistra”. Questo atteggiamento suscitò un certo imbarazzo in Silvio Berlusconi il quale prima accondiscese al consenso poi cercò altre vie e altre scelte. Le parole di Fini non lo convinsero e  si mise alla ricerca di qualche altro esule, rivelando incertezza sulla via da intraprendere. Lo scomodo alleato si comportava a volte come un pavone, a volte come un fringuello; enunciava precetti moralistici e di coerenza che facevano a pugni con il faccendiere di Montecarlo. Sembrò felice, come disse alla Camera, di essere cacciato; abbandonato anche dai suoi amici come un attore declassato dal suo pubblico dopo averne goduto i favori. Il successore di Giorgio Almirante non poteva essere lui. I fascisti che speravano in Fini si avvidero presto che il killer, come Achille Occhetto definisce Massimo D’Alema, faceva le “fusa” all’ex missino per fare da detonatore che aprisse la strada a un inciucio non con il leader di FI, ma con il suo sottopancia. Nulla da meravigliarsi. Connubi non così spaventosi la sinistra li ha tentati sempre. Fini si distingueva assai bene nello scampanellio di presidente della Camera, ottenendo consensi generali. Ma i più accorti avvertivano che in lui non echeggiava il famigerato “murmure” del compromesso storico. Se non si fosse messo da intralcio l’”affaire” dell’appartamento di Montecarlo, rivelatosi un malaffare, forse l’impervio corso dell’inciucio avrebbe avuto altri approdi. Il caso Fini ricorda quel brano dell’”Amleto” che dice: “Chi è quell’uomo al quale scavi questa fossa?”, chiede Amleto a un becchino che impugna una pala con cui riempie una tomba di terra. “In vita”, risponde il becchino, “era un eroe, poi ha fatto una gran fesseria…”. Questa gran fesseria Fini l’ha commessa; voleva la casa a Montecarlo e i cavoli dell’alleanza con D’Alema. Oggi, pur riconoscendogli una certa eleganza dialettica, ci accorgiamo che è all’opposto di “colui che guida”. Le sue parole cadono nel vuoto; somiglia a quei vecchi giocattoli che hanno cessato di ingannarci con le loro risorse. Per fare lo sgambetto a Berlusconi ha continuato a bussare alla porta di D’Alema che, allora, confidava di lanciarsi nel domani fornicando con un ex fascista. Questo doppiogiochismo era talmente evidente che ha finito per produrre uno “splendido” isolamento dei due leader, ingannatisi sulle proprie capacità.

Maurizio Liverani