FATEMELO DIRE
di MAURIZIO LIVERANI
U.S.A., CHE FAI?
L’espressione che ha più colpito l’opinione pubblica, al momento dell’ elezione di Donald Trump, è stata sottaciuta dai grandi ideologi, da statisti insigni. Appena nominato Trump gridò a gran voce: “Non me ne intendo!”, lasciando di stucco tutti i suoi sostenitori ma riportando alla mente una definizione di Louis Stevenson. Questa: “La politica è la sola attività che non richiede alcuna preparazione”. Il nuovo presidente, partendo da una considerazione di sé riduttiva, è fuggito subito a razzo alla ricerca di espressioni tormentate sulla condizione umana, imbevuto di declamazioni sociali, sollecito solo di “elevati” pensieri. Si è avvolto, nonostante avesse già allora una natura un po’ tronfia, nella malinconia leopardiana; come si può essere individualmente felici quando il popolo soffre? Questo violento colpo di timone da uomo della strada dato al suo discorso apparve, quattro anni fa, come una straordinaria impresa di “pubbliche relazioni”. Trump entrava in politica facendo mostra di una dovuta “impreparazione” per poi salire in alto. Non voleva civettare con i sommi spiriti; parole come “destra” e “sinistra” per lui non dovevano avere più corso. La caratteristica di quella lunga e chiassosa campagna elettorale era questa: il candidato si dichiara ripetutamente non competente ma vince le elezioni e se ne compiace. Questo fu l’inizio che infiammò di entusiasmo gli animi di milioni di americani. In quattro anni i tempi sono cambiati; Trump non può cavarsela con un “fair play” stendendo un velo sui misfatti di questi ultimi tempi. Dopo l’abbattimento delle due Torri è maturato un odio sempre più profondo negli americani di colore contro quelli che parlano di convivenza secondo i principi di un frainteso liberalismo. Cominciò a scomparire, grado a grado, l’euforica atmosfera nazionale. Molti afroamericani si convinsero di aver combattuto, soprattutto nell’ultimo conflitto, per una causa che non apparteneva loro. Sono milioni quelli che non hanno imparato nulla dagli orrori della guerra. Domanda: “Non si sono accorti allora ma hanno capito oggi che gli afroamericani avrebbero presto subito persecuzioni inasprendo crudeltà, inaugurando nuove forme di odio?”. Lo sapevano eccome! Le strade melmose di una finta democrazia lasciavano prevedere sin d’allora quegli atti di ferocia in vista della strategia del “dopo”; uno scenario su cui trasferire nuovamente l’odio razziale, elevato a regola con scontri sempre più cruenti. Gli americani di colore, approfittando delle prossime elezioni, assolvono un incarico raro. Se analizziamo bene i fatti si scopre un compito affrontato con competenza e tempismo: il compito di rendere più agevole la strategia dell’odio, impancatasi e sopravvissuta sino ad oggi. Per riprendere un neologismo caro a Raymond Aron, l’odio rifiorisce “nella ideologia della sinistra”; una forma di egemonia sulle menti, più ostinata del totalitarismo. Anche “penne illustri” subiscono il ricatto; accordano il “fair play” alla sinistra nel timore di fare il gioco della destra.
MAURIZIO LIVERANI