di Maurizio Liverani
Il primo film italiano presentato nel 1932, nascita della Mostra del cinema di Venezia, si intitolava “Gli uomini, che mascalzoni…”, diretto da Mario Camerini e interpretato da Vittorio De Sica. Tra le interpreti Maria Denis, famosa attrice dei “telefoni bianchi”, divenuta in seguito protagonista di un fatto clamoroso: aver salvato Luchino Visconti dalla banda Koch che, nella famosa Villa Triste, torturava e uccideva i partigiani. Questo suo atto d’amore fu interpretato come “collaborazionismo”. Tutti si aspettavano che il conte Visconti rendesse omaggio a chi l’aveva salvato. Niente di niente; le paladine dell’antiviolenza mute, i “maitre à penser”, o quanti si piccano di esserlo, impegnati in altro. Insomma, un silenzio disgustoso che sottolineava una tragica realtà. E’ passato tanto tempo da quei fatti; l’eroina è dimenticata, nessuno che abbia sollevato il suo ricordo. Si dirà: è stata assolta, è vero. Dai più l’attrice è considerata una “martire” perché sopravvivesse un mito. Quindi chi se ne importa di quel gesto nobile! La diva dei “telefoni bianchi” era colpevole a prescindere per essere stata, con Vittorio De Sica, una star del cinema mussoliniano. Visconti, grazie a lei, divenne una star del cinema post-mussoliniano; due pesi e due misure, due morali e due sensi della giustizia. Quando c’è di mezzo il tornaconto politico tutto si fa doppio. Ora, dopo tanti anni, calmatesi le acque, si potrebbe rendere omaggio al sacrificio di questa deliziosa attrice. Dopo aver superato gli ottant’anni, la Mostra di Venezia ripropone la coabitazione forzata tra creatività e commercio. Servendomi dell’ironia avrei voluto dimostrare come i pulpiti più fieri, da me condivisi in gioventù, si sono inabissati nella ripetitività. Il primato di Venezia non avrebbe mai ceduto se agli autori fosse stata concessa la libertà di raccontare storie non come cartoline di un bel tramonto. Ieri è stato proiettato il film italiano, dal titolo inglese, “The Leisure Seeker”, diretto da Paolo Virzì con Donald Sutherland e Helen Mirren, opera nata con concorso di capitali indiani. “Cercavo gli States non folkloristici un po’ come se in Italia avessimo girato in quella maremma fatta di strade scialbe…”, dice il regista che ha avuto la possibilità di girare all’estero lasciando gli studi di Cinecittà. Il cambiamento non è avvenuto in maniera indolore perché ha sottratto lavoro alle maestranze italiane con la scusa di una intrepida ricerca. Ci dispiace dirlo, il film, che ha alcuni meriti, sottolineati dai giornali, coglie questa dissoluzione in atto del cinema italiano. Si potrebbe dire che il Festival di Venezia con il Lido ha dato un altare al nichilismo. Il nostro cinema ha sempre cercato di evadere all’estero e, soprattutto, di nutrirsi di interpreti stranieri. Per il film “8 e 1/2” Fellini mi incaricò di invitare a Roma l’attore Jacques Werner, interprete di “Jules e Jim”, per sostituirlo a Marcello Mastroianni che non lo interessava più tanto. Non se ne fece nulla perché l’attore austriaco avrebbe dato alla pellicola un sapore mitteleuropeo, carattere che Federico non voleva dare all’opera. Si arrabbiò molto quando lesse nella mia recensione che l’opera, bellissima, si ispirava al poeta crepuscolare Marino Moretti e alla sua raccolta “Poesie scritte con il lapis”. Quando ci incontrammo mi apostrofò aspramente dicendo: “Perché non hai citato Joyce?”. Io caddi dalle nuvole.
Maurizio Liverani