di MAURIZIO LIVERANI
Per rinvenire le basi del disastro attuale bisogna risalire agli anni ’70. Giorgio Amendola, con il tono di chi ha definitivamente registrato nelle sue vene e nel suo cranio l’agonia dell’ideologia marxista, avvertì i socialisti, alla vigilia di un loro congresso, a non porsi su posizioni da “fronte popolare”, preludio, era il suo monito, a un bipartitismo dc e pci, insidioso per le sorti del Paese. Consapevoli della loro modestia, i capi comunisti si impegnarono a far apparire il loro partito come una formazione democratica intenta, davanti agli italiani, a non applicare il programma marxista. La rinuncia alla dottrina non è stata il frutto di una scelta; nacque da un ordine che, come sempre, veniva da Mosca. Breznev disse chiaro e tondo che il pci non doveva più essere, ufficialmente, il partito del sabotaggio. Da allora, il pci si è presentato in evidente e programmatico contrasto con il confusionario psi, come un partito pronto a porsi democraticamente al servizio del bene pubblico. Travestirsi da agnelli e far ricorso, raramente, ad argomenti agitatori. Da quel momento il pci spinse i suoi uomini ai primi posti dello Stato borghese. La verità era un’altra. Il mondo andava a destra, sempre più a destra. Pier Paolo Pasolini intravvedeva più fascismo nel partito nato da questa scelta che nel fascismo vero e proprio. Il mito snobistico ed estetizzante della “alternativa assoluta” per milioni di uomini e donne divenne “flatus vocis” di politicanti futili, facoltosi i quali hanno affrettato la disgregazione delle costruzioni ideologiche del marxismo. La malafede del pci andava intesa nel senso dato da Sartre; era il rifugiarsi nella “menzogna multipla”. Era un espediente per confondere. Da allora quello che resta della sinistra, non avendo più modelli, è soltanto una parola. I metodi arcaici del vecchio pci sono stati assimilati dai nuovi governati che non riescono a nascondere la loro quintessenza che è di impostazione fascista.
MAURIZIO LIVERANI